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VOLUME 62, N°1 GENNAIO-MARZO
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2018
Tullio Seppilli e la psichiatria Tullio Seppilli and psichiatry Francesco Scotti Con la morte di Tullio Seppilli si è chiusa una pagina importante della psichiatria umbra. Non che la sua vicenda si possa ridurre all’essersi interessato di psichiatria. Nella sua lunga storia di ricerca antropologica ci sono sicuramente pagine più importanti e contributi che hanno inciso in modo più significativo sull’accumulo della conoscenza. Ultimamente aveva deciso di esplorare i suoi vari pezzi di vita per rispondere alla domanda “perché si diventa antropologo”, una domanda che egli innanzi tutto rivolgeva a se stesso, per soddisfare un bisogno di autocomprensione cui non aveva mai rinunziato (1). Se parlo del suo interesse per la psichiatria è perché è ciò che conosco meglio di lui perché costituiva causa e contenuto dei nostri incontri, diventati più frequenti da quando ero entrato nel progetto “Per una storia della riforma psichiatrica in Umbria” nel 2010. Tullio Seppilli confessava di avere da lungo tempo dei “ponti” (così li chiamava) con la psichiatria. In una nota autobiografica inserita nella presentazione del Quaderno dedicato alla “Nascita del movimento antimanicomiale umbro” (2) ricordava di aver “partecipato intensamente al movimento con due differenti ruoli. Da un verso come consigliere della provincia di Perugia del Pci (1970-1980), in particolare Vice presidente della commissione consiliare per i servizi psichiatrici (la presidenza spettava, in base ad una prassi consolidata, alla minoranza democristiana), nonché proponente (in accordo con H. W. Schoen, capogruppo DC) della delibera provinciale per la costituzione del centro regionale umbro per la ricerca e la documentazione storico psichiatrica. Per altro verso come direttore dell’istituto di Etnologia e antropologia culturale che seguì il movimento con numerose tesi di laurea e attività di ricerca, e che ebbe dalla Provincia il compito di analizzare e sintetizzare le registrazioni delle proposte emerse dalle assemblee popolari realizzate nelle principali città del territorio provinciale al ne di discutere il progetto di regolamento dei nuovi centri di igiene mentale, già avviati sperimentalmente dal 1970 in alternativa al manicomio”.   Sottolineava che il suo lavoro nel partito e nell’amministrazione si era svolto in collaborazione con gli operatori e i sindacati, nelle grandi assemblee dentro e fuori dal manicomio, per delineare le risposte alternative al bisogno psichiatrico rispetto a quelle offerte dall’istituzione che veniva contestata.È stata questa una collocazione privilegiata che gli ha permesso di cercare direttamente, nel processo di trasformazione dell’assistenza psichiatrica, il modo giusto di integrare il ruolo politico e il ruolo tecnico, la giusta collaborazione tra i rappresentanti delle istituzioni e gli operatori al fine di costruire una psichiatria rinnovata. Pur non essendo un operatore della salute mentale si trovava nella posizione di poter verificare l’applicazione dell’idea che, per affrontare la malattia mentale, non fosse sufficiente una competenza specialistica ma occorresse la capacità di tenere sotto controllo tutti i meccanismi che fanno di un disturbo psichico una devianza o una causa di marginalità ed esclusione. Aggiungeva: “Attualmente mi occupo della ricostruzione storica del movimento per conto delle istituzioni pubbliche e del sistema sanitario della mia regione lavorando sui documenti e con i protagonisti e i testimoni di quegli eventi, perché è necessario conservare la memoria di ciò che fu il manicomio, per costruire ogni giorno risposte adeguate alle situazioni che via via si pro lano per combattere i tentativi, molto concreti, di tornare indietro” (3).  Se volessimo qui stendere solo un piccolo elenco di ciò che egli ha fatto per la psichiatria, dovremmo incominciare dalla testimonianza a favore del valore scienti co della conoscenza psichiatrica in un periodo in cui non andava assolutamente di moda parlare bene della psichiatria: egli riconosceva al punto di vista psichiatrico una dignità autonoma nella comprensione dei fenomeni umani. In una concezione sanamente materialistica dava spazio, nella costruzione del sapere sulla follia, agli apporti che venivano dalla biologia oltre che dalla psicologia. Per lui custodire la molteplicità delle fonti che confluivano a costituire la psichiatria era un modo concreto di fondare una critica delle ideologie che portavano a considerare ogni devianza, e quindi anche quella psichiatrica, come rivoluzionaria e produttrice di una lotta di liberazione, come pure di quelle posizioni che nega- vano la specificità del disturbo psichico ridotto ad epifenomeno di una violenza sociale. Questo non gli impediva di riconoscere il legame tra la espressività dei disturbi mentali, le condizioni di vita materiali e i condizionamenti storico-culturali. Con ciò applicava alla psichiatria le metodologie con cui si costruisce una antropologia medica.   La seconda caratteristica della sua posizione nei confronti della psichiatria è di aver sempre pensato ai problemi della salute mentale come parte dei problemi della salute in generale. L’aver riportato la salute mentale alla salute in generale e l’aver tradotto la conoscenza psichiatrica in conoscenza antropologica resterebbero tuttavia operazioni parziali e, soprattutto, operazioni scisse, se non fossero inserite in un progetto politico complessivo, riassumibile nella concezione della salute come un bene comune, da costruire e preservare. “La parola beni comuni rinvia all’idea che delle cose appartengono alla collettività e non al singolo. È una reazione all’individualismo imperante, alla aggressività dilagante, alla competitività continua che è propria del sistema sociale in cui viviamo. Risponde all’esigenza che alcuni beni essenziali per la vita dell’uomo debbano sfuggire alla logica della proprietà privata, del mercato e del pro tto e vadano tutelati dalla legge come beni collettivamente controllati e potenzialmente disponibili per tutti. Se si parla di sanità come bene comune ci si riferisce ad un sistema pagato con la fiscalità generale e distribuito secondo criteri di universalità” (4).   Per fare in modo che un bene diventi bene comune, e non solo bene pubblico, è necessaria la partecipazione di tutti gli interessati. Rimane aperto il problema di come aprire un servizio sanitario pubblico a nuove forme di discussione, partecipazione e gestione comunitaria dal basso dal momento che i meccanismi di iniziativa di controllo dal basso, previsti dalla legge 833, sono stati aboliti e sostituiti da un controllo dall’alto.   Forse non è un vanto eccessivo affermare che le condizioni per rendere la salute un bene comune sono state sperimentate in Italia per la prima volta dai movimenti che hanno portato al superamento del manicomio e alla costruzione di una psichiatria di comunità: la comunità si è riappropriata del problema non solo della salute mentale ma anche della malattia mentale, perché la conquista di un nuovo sistema assistenziale si è accoppiata con l’affermazione dei diritti di cittadinanza; le necessarie specializzazioni non sono state più un limite ad una fruizione universale dei servizi; la competenza dei cittadini è stata utilizzata per avviare un controllo dal basso della qualità degli interventi. Forse tutto questo è stato facilitato dallo scarso livello tecnologico delle prestazioni psichiatriche che non richiedono ospedali particolarmente attrezzati, e dall’arretratezza del sistema manicomiale, non più compatibile con il livello di sviluppo della società italiana degli anni ‘60.   A chi trovi eccessivo tale elogio della psichiatria si può dire che questa esemplarità, per altro distribuita in modo irregolare nella penisola, si è esaurita senza aver prodotto alcun effetto sul sistema sanitario tradizionale fondato sull’ospedale e sull’impermeabilità a qualsiasi partecipazione laica sentita come un attacco alla sacralità della specializzazione. Anche dalla constatazione di questa regressione è scaturita la necessità di una ricerca sulle origini e lo sviluppo della psichiatria umbra, al ne di cogliere i suoi punti di forza e di debolezza e di individuare cosa di essa fosse ancora vitale. La ricerca, avviata nel 2003, è stata portata avanti dalla Fondazione Angelo Celli, di cui Tullio Seppilli era presidente. L’idea di Seppilli era che andassero recuperate le testimonianze di una cultura che aveva visto una diffusione soprattutto orale, profondamente legata alle esperienze pratiche piuttosto che a sapienti elaborazioni teoriche. Questo compito scaturiva da esigenze etiche che egli chiamava la sua opzione comunista, alla quale si è sempre mantenuto fedele. “La mia opzione comunista ha giocato per l’antropologia: sul terreno dell’impianto generale, con il costante richiamo a contestualizzare idee, persone, istituzioni, accadimenti in un orizzonte storico, in un quadro sistemico; sul terreno operativo, con l’abitudine al lavoro di gruppo, a sentire gli altri e, almeno in prospettiva, a impostare e  finalizzare l’esame empirico delle situazioni e opzioni pratiche dentro concrete strategie di intervento” (1). Nella campagna di interviste, che si realizzò negli anni successivi, la particolare attenzione posta sulla ricostruzione del clima politico e degli aspetti amministrativi risente certamente dell’esperienza che Tullio Seppilli ha fatto in prima persona nel Consiglio Provinciale di Perugia negli anni ‘70; in particolare del lavoro svolto per coinvolgere la minoranza democristiana nel progetto di psichiatria rinnovata, strappandola alla critica ideologica e all’isolamento culturale che l’avevano caratterizzata no ad allora. È stato questo il primo esempio del compromesso storico che in quegli anni si stava sperimentando; ma soprattutto è stato un modo corretto di gestire una egemonia culturale che non negava la propria impostazione marxista ma non si presentava come dominio bensì come servizio, rinunziando a parole d’ordine per cercare parole condivise. Nel lavoro per l’elaborazione delle interviste e la raccolta dei documenti che avevano scandito le varie tappe del processo evolutivo della psichiatria umbra, si sente l’urgenza di far riemergere dall’oscuramento a cui sembrava condannata la ricchezza di quel periodo, un rinnovamento spesso celebrato nelle occasioni ufficiali ma sempre meno praticato nell’ultimo decennio. In questo compito egli impegnava tutte le sue risorse intellettuali e culturali, con lucidità e pazienza.   Chi lo ha frequentato in questi ultimi anni si è reso conto che la sua età avanzata non ha avuto la qualità di essere qualcosa di troppo, un residuo più o meno utile. Se fosse lecito un uso non convenzionale dell’aggettivo “avanzato” si potrebbe dire che è un’età disponibile per avanzare. Questa età, in cui ha raggiunto obiettivi importanti, egli l’ha vissuta nel modo più intenso e condiviso. La vita di Tullio Seppilli è la prova che la vecchiaia non esiste. Esistono le malattie più o meno sopportabili ed eventualmente mortali ed esiste una conclusione inevitabile. Se la vita è una sfida, esemplarmente tale a me sembra sia stata quella di Tullio. BIBLIOGRAFIA 1. Seppilli T. Come e perché decidere di “fare l’antropologo”: una personale case history nella brasiliana São Paulo degli anni Quaranta. L’uomo, Tradizione, Società, Sviluppo 2014; 2: 67-84. 2. Giacanelli F. Nascita del movimento antimanicomiale umbro. Perugia, Fondazione Angelo Celli per una cultura della salute, 2014. 3. Seppilli T. Per un breve pro lo del movimento antimanicomiale italiano negli anni 60-70. In: Lupattelli P (ed) I Basagliati. Perugia, Crace, 2009. 4. Seppilli T. (intervista a cura di Nocentini C). Per una salute e sanità bene comune. Animazione Sociale 2013; 278: 3-12